LE VOCI DAL CAMPO
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I grandi centri hanno un diverso approccio nei confronti del donatore e della donazione. Intendo dire che le grandi città, come Brescia, Bologna, Milano sono realtà industriali: fanno 400-500 donazioni al giorno.
La donazione diventa una catena di montaggio. Per carità una bella catena di montaggio che racchiude in sé molti valori importanti. Nei centri più piccoli però viene data più importanza alla dimensione relazionale.
Favorire e sviluppare un senso di appartenenza non deve diventare e sconfinare nel puro e semplice desiderio di apparire, attraverso un meccanismo simile a quello dei villaggi turistici in cui le persone hanno una divisa che dà loro visibilità all’esterno.
Avis per adesso non ha divise o cose simili e io penso che molte persone non entrino in AVIS proprio perché sanno che nell’Associazione rimarranno anonimi.
Si sta rischiando di perdere il donatore! Il coinvolgimento del donatore non è solo una questione di partecipazione alle assemblee, di rendicontazione ecc.
Questi sono tutti dati formali. Bisogna invece che ci siano continui processi di scambio, di interazione e co-progettazione.
L’Avis non può essere un’associazione piena di generali senza neanche un soldato semplice!
Questo vuol dire che l’associazione e la dirigenza non favoriscono la formazione di un senso di appartenenza tra i soci donatori. Nel concreto l’unica cosa che fanno è quella di consegnarti la tessera ad indicare che sei diventato socio. Ricordo infatti che la tesserina mi è arrivata a casa con i primi esami del sangue, ed è stata una cosa che mi ha fatto piacere, in quanto gesto di gratificazione, però è rimasta l’unica cosa che hanno fatto.